Nella precedente puntata del 24 febbraio ho fatto un cenno al termine investimento in senso lato, riservandomi di approfondire l’argomento poiché è uno degli aspetti più importanti della gestione finanziaria personale, familiare ed aziendale.
Oggi tratterò dell’investimento focalizzando l’accezione finanziaria del termine, con l’obiettivo di rendere per quanto possibile chiaro e semplice un concetto spesse volte ritenuto, a torto, quasi un mostro da cui stare a debita distanza perché non si conoscono bene gli strumenti, le dinamiche e le logiche finanziarie che stanno alla base degli investimenti e, solitamente, si tende a temere ciò che si non conosce.
In linea generale, l’investimento si perfeziona tramite specifici strumenti finanziari quali i titoli di stato, le obbligazioni, le azioni ed i fondi comuni di investimento, noti alla maggioranza degli investitori, anche occasionali. Oltre a tali strumenti finanziari, sul mercato sono presenti altri strumenti quali gli ETF (exchange-traded fund) meno noti al vasto pubblico, ed altri molto sofisticati (futures, swaps, derivati) appannaggio di investitori istituzionali e professionali stante la loro complessità e la rischiosità intrinseca.
Analizziamo i singoli strumenti finanziari, iniziando da quelli più noti e presenti nei dossier titoli di molti risparmiatori ed investitori: i titoli di stato.

I titoli di stato fanno parte della famiglia dei titoli di credito, sono obbligazioni rilasciate da uno Stato sovrano e la loro emissione ha lo scopo di approvvigionare risorse per la realizzazione di investimenti ed infrastrutture, per coprire la spesa pubblica oltre che per rifinanziare il debito pubblico esistente.
A fronte della sottoscrizione di un titolo di stato l’investitore percepisce un interesse il cui tasso varia sulla base dell’indice di solvibilità attribuito allo Stato emittente: maggiore è la solvibilità minore sarà il tasso di interesse che lo Stato dovrà pagare agli investitori che acquistano i titoli, e viceversa.

I titoli di stato a tasso fisso emessi dallo Stato italiano sono i Buoni ordinari del Tesoro (Bot), i Buoni del Tesoro poliennali (Btp) ed i Certificati del Tesoro zero Coupon (Ctz); ad avere il tasso variabile sono, invece, i Certificati di credito del Tesoro (Cct) ed i Ccteu – Certificati di Credito del Tesoro indicizzati al tasso euribor.
In merito ai titoli di stato italiani mi preme far presente che, rispetto al passato – allorquando i rendimenti erano a doppia cifra – gli attuali tassi sono ai minimi storici, addirittura per i Bot in negativo (ultima asta Bot rendimento -0,247%).
Tralascio intenzionalmente l’approfondimento su Bot e Ctz ritenendo più utile soffermarmi sul funzionamento del Btp in quanto questo titolo di stato, essendo un’obbligazione, deve essere maneggiato con cura atteso che la sua volatilità è molto ampia e legata all’andamento dei tassi di interesse. Se, infatti, i tassi di interesse registrano un rialzo o un ribasso il prezzo del titolo, rispettivamente, diminuisce o aumenta.

Faccio un esempio. Se acquistiamo Btp con scadenza 2032 (15 anni) per un valore nominale complessivo di 10.000 euro, al tasso del 1,65% annuo, percepiremo le cedole e la quotazione del titolo, fermi restando i tassi di interesse di mercato, sarà sostanzialmente costante. Ipotizziamo, invece, che i tassi aumentino di un punto percentuale, per un incremento dello spread o per una variazione della politica monetaria europea. In tale condizione, il Btp che abbiamo acquistato, pur continuando a staccare cedole al tasso del 1,65% (al lordo di ritenuta fiscale), subirà una drastica riduzione di prezzo per cui, se avessimo esigenza di vendere il suddetto titolo, otterremmo una perdita (minusvalenza) in conto capitale. Specularmente, se i tassi di mercato dovessero calare di un punto percentuale, il nostro titolo avrebbe un guadagno (plusvalenza) in conto capitale.

Ma perché avviene ciò? Bene, riprendiamo gli esempi di prima: abbiamo un Btp quotato € 90,45 che stacca cedola lorda del 1,65%; se i tassi aumentano e viene emesso nuovo Btp con cedola 2,65% va da sé che il Btp in nostro possesso non può mantenere lo stesso valore giacché il suo rendimento è minore ed in quanto tale non troverebbe investitori disposti all’acquisto. Il valore della quotazione si ridurrà, quindi, percentualmente ed in ragione della durata residua del titolo.
Lo stesso esempio può essere utilizzato in caso di riduzione dei tassi di interesse, ipotizziamo sempre dell”1%, poiché in questo caso il Btp 1,65% renderebbe di più rispetto ad analogo titolo di nuova emissione con cedola 0,65%, per cui la quotazione subirebbe un incremento.