Quante volte me lo sono sentito ripetere! E quante volte ne ho visto l’applicazione pratica! Ed invece a me questo modo di dire – che, beninteso, è innanzitutto una filosofia di vita – non è mai piaciuto.

Alzi la mano chi non ha mai avuto un compagno di scuola fedele a quel modus vivendi: ci s’impegna enormemente nei primissimi mesi e dopodichè si campa di rendita, senza troppi affanni; la fama è bell’e conquistata e si possono dormire sonni tranquilli. Attenzione, non vorrei essere frainteso: ho anche avuto, come voi, compagni che invece sudarono tanto per l’intero cursus studiorum.

Ieri sera saltellavo col telecomando da una tribuna politica all’altra. Tutti i giornalisti ponevano agli aspiranti sindaci la stessa domanda: cosa farà nei primi cento giorni? Le risposte parevano ciclostilate. Ed io mi chiedevo: ma in piena epoca renziana, non s’era passati ai mille giorni, magari con tanto di sottofondo musicale baglioniano?

Epperò, altro che cento giorni: i cittadini sono chiamati a scegliere il sindaco dei prossimi cinque anni. Ed in cinque anni si possono e debbono cantierare idee, progetti ed azioni a breve, medio e lungo termine. Financo un bambino capisce che nei primi cento giorni si potrà tutt’al più ingenerare o modificare un processo di ordinaria amministrazione, di routine (ed in molte realtà locali l’ordinario appare come straordinario).

La legge e gli statuti comunali prevedono che gli aspiranti sindaci redigano e depositino un quinquennale programma amministrativo; sugli eletti grava poi il compito di relazionare annualmente, in consiglio comunale, sullo stato di attuazione del programma. Ma, come molte altre leggi italiote, anche queste prescrizioni sono soltanto carta straccia, mancando una corrispondente sanzione.

Ed ecco allora dilagare le conferenze stampa dei “primi cento giorni”; ecco la pruriginosa curiosità di sapere cosa farebbe il candidato nei primi cento giorni.

E dei rimanenti 1725 giorni, cosa ne sarà? Fatti ‘a fama e va’ curcati!